La squadra

Articolo di Diego Besozzi. Vietata la copia e la distribuzione non autorizzata. 

Il gioco che faccio non prevede festività. Natale, Capodanno, Pasqua, Ferragosto, Domenica. Per me sono giorni normali. Non che io non avverta il clima di questi giorni, ma quello di cui mi occupo viene decisamente prima.

O meglio, è una questione di vita o di morte.

È il capodanno del 2006 e mi trovo al Narconon. Abbiamo fatto una bella festa con gli ospiti sul programma e i miei colleghi dello staff. Sono le 4 di notte, ho messo tutti a nanna e sto passeggiando fuori dagli uffici cercando di respirare il nuovo anno.

Un trillo continuo attira la mia attenzione dentro l’ufficio. Dal display del telefono vedo il prefisso. Torino. Penso ai ragazzi di Torino che conosco, che sono stati qui e penso che qualcuno di loro voglia farci gli auguri per il nuovo anno. Alzo la cornetta.

È un ragazzo di 34 anni. Mi chiede se sono disposto ad aiutare suo fratello. È in condizioni pietose, dopo un continuo abuso di coca e alcol. Rispondo affermativamente e mi segno l’indirizzo. Due ore di sonno e sono alla volta di Torino. Sei ore di macchina e mi incontro con il fratello di Gianbattista, così si chiama il mio uomo.Salgo sulla sua macchina e mi spiega la situazione.

Gianbattista è un uomo di 44 anni. Prima di ora era una persona in gamba che organizzava eventi importanti nel settore della moda. Sfilate, show room e quant’altro. Mi dice anche che era molto rinomato e conosciuto, in tutta Torino.

Poi l’alcol, la coca, psicofarmaci e lentamente la rovina di tutto.
Gli dico di portarmi da lui e gli chiedo la sua collaborazione per convincerlo a venir via oggi stesso, con me. Lui mi risponde dicendomi che non sarà il solo ad aiutarmi. Intanto ferma la macchina sotto casa del fratello e lì, davanti al portone, 9 uomini si girano a guardarmi. Scendo dalla macchina e loro si avvicinano. Stringo la mano a ciascuno di loro scoprendo alcune somiglianze
nei loro volti. Scoperta:

“Siete dieci fratelli?”. “Sì, ma dovremmo essere undici”.

Indica l’unica finestra illuminata del condominio dietro di noi. Facendo un rapido calcolo penso che 11 fratelli fanno una squadra di calcio.
Penso subito a me e mio fratello. Alla nostra infanzia. Gli scherzi, il casino, le botte. Moltiplico il tutto per cinque e immagino i miei con le mani nei capelli. E’ in quel momento che mi si avvicina un piccolo uomo decisamente più vecchio. Il suo volto è tipicamente siciliano. Un cappotto nero. Baffetti corti. Pochi capelli. Gli occhi piccoli e neri, di chi ha vissuto 100 anni di gioie e
dolori. Capisco che lui è il mister della squadra. Il presidente. Il creatore. Il padre di ognuno di loro.

Gli porgo la mano pensando che deve aver avuto una vita intensa e che in generale deve averci dato dentro, sicuramente come amante di sua moglie. Probabilmente volevano la femmina a tutti i costi e non si sono rassegnati facilmente.

Lui mi stringe forte la mano e non me la restituisce subito. Continua a fissarmi con orgoglio. Mi sta chiedendo senza parlare, per il bene di tutta la famiglia di aiutare Gianbattista.
Io lo guardo e faccio cenno di sì, mi riprendo la mano, guardo i suoi figli e li invito a portarmi da lui.

Mentre saliamo in ascensore mi chiedo cosa mi troverò davanti. Suoniamo il campanello. Suoniamo il campanello. Suoniamo il campanello. Pausa.
Suono il campanello. Suono il campanello. Pausa. Suono il campanello. Mi giro.
Sui ragazzi scorgo un filo di tensione.
Suono il campanello.
Finalmente alcuni rumori.
Sentiamo il suono lento, lentissimo di passi che scivolano sul pavimento.
Attimi interminabili.
Inizio a chiedermi cosa troverò dietro quella porta chiusa.
La porta si apre.
Quello che vedo è al di fuori di ogni mia aspettativa.
Un piccolo uomo in ciabatte, pigiama azzurro di sotto, canottiera sporca di sopra, baffi lunghi, barba sfatta, capelli scompigliati, occhiali spessi e rotti e soprattutto una ferita fresca di qualche giorno che come una crepa scende
dalla fronte fino alla punta del naso e giù ancora fino al labbro.

Assomiglia all’attore comico Nichetti, dopo che un treno gli è passato sopra.

Si dice che il corpo sia lo specchio dell’anima.
Gianbattista abbassa lo sguardo sottoterra , si volta e striscia lento a passi alterni dentro una stanza, senza alzare i piedi.
Chiedo subito ad un suo fratello cosa abbia fatto in faccia e lui mi spiega che dopo un mix di barbiturici ed alcool Gianbattista ha pensato bene di svenire vicino ad una grande vetrata.
Il resto lo immagino da me.

Io sostengo che siamo esseri spirituali e per quanto in basso possiamo cadere rimane sempre, anche se flebilmente, una piccola fiammella. Quella fiamma non è altro che l’individuo stesso.
In base a quello che stiamo vivendo questa fiamma pilota può bruciare più o meno intensamente, fino a tornare ad essere un rogo stupendo, nei momenti migliori della nostra vita.
Quello che cerco di fare durante questi colloqui è di alimentare un po’ queste fiammelle, in modo che sappiano che possono tornare ad essere veri fuochi.
Tutto qui.

Per farlo devo trovare la giusta leva, quell’argomento che fa reagire la persona.
Non è facile, soprattutto con le persone che non conosco e che non dicono una parola.

Entro in cucina.
Gianbattista siede su una sedia di legno con le braccia e la testa che fissano il pavimento.
Prendo anche io una sedia e mi sistemo vicino a lui. Gli altri 11 sono dietro di me.
Non vola una mosca.
Aspettano con un silenzio religioso che qualcosa succeda.

Io mi presento. Dal suo sguardo capisco che ha preso psicofarmaci, oggi stesso.
Parlo lentamente, in modo molto chiaro. Doso ogni parola mentre gli spiego il motivo della mia visita. Nel farlo mi accerto che lui sia in grado di capire.
Lo è. Lo capisco da un paio di risposte che a fatica mi restituisce.
Metto la seconda marcia.
Gli spiego quali sono i motivi per cui una persona non riesce a smettere di prendere droghe e cosa queste fanno a livello fisico e mentale. Gli faccio capire con degli esempi perché senza essere aiutati uno non se ne esce.
Nessuna reazione.
L’attenzione di Giambattista è tutta dentro al pavimento della cucina.
Capisco che si sente un uomo finito.
Altro che fiamma…
Altro silenzio.
Metto la terza.
Gli racconto la storia di un altro uomo che ho conosciuto che era nelle sue stesse condizioni, ma che ha saputo reagire e venirne fuori, grazie al programma Narconon. Gli dico anche che adesso sta bene ed è felice.
Lo osservo e penso che questo sia troppo per lui.
Nel senso che è troppo a terra per vedersi trionfare e vincere la droga.
Però poi finalmente una reazione.
Le mie parole gli hanno rigato le guance di lacrime.
Bene.
Un sano pianto è meglio di nessuna reazione.
Ma ancora non ho trovato la leva.

Quando cerco di convincere qualcuno a tornare a vivere non seguo mai uno schema.
Semplicemente mi lascio andare e parlo sinceramente, con il cuore in mano.
Quando bocca e cuore sono sincronizzati le mie parole sono come delle lance che arrivano dritte dritte alla persona, e che lì rimangono.

Metto la quarta.
Gli faccio notare che lui ha una famiglia stupenda. 10 fratelli uniti ed un buon padre che tanto ha fatto per ciascuno di loro. E che in questo momento pendono dalle sue labbra.
Gli spiego che con un piccolo gesto potrebbe sollevarli e renderli veramente felici.

Il pianto è aumentato. Gianbattista sta singhiozzando forte, questo è un pianto liberatorio.
Metto la quinta e alzo il volume.

“Dai! In piedi!!”
“Tirati su!”
“Fai le valigie!!”
“Alzati!!”
“Partiamo!!”

Gli poso la mano sulla spalla, lui alza la testa e la abbassa nuovamente. Guardo i suoi fratelli preoccupati e suo padre. Anche lui sta piangendo.

Alzo il volume.
“Fallo per loro Gianbattista!!”
“Fallo per la tua famiglia!!!”

“RIALZATI!!”

“Rialzati e vieni con me, coraggio!!!”

D’un tratto come per magia un’altra voce si unisce alla mia.

“Dai Giambattista, fallo per noi, fallo per papà!”
Poi un’altra.
“Coraggio!”
“Fai vedere chi sei!”

E un’altra ancora.

“In piedi!!”
“Dai, siamo con te!!!”

Ora è un gioco di squadra.

Io mi alzo dalla sedia.
Non ho niente da aggiungere.
Ho come avviato un qualcosa che viaggia al posto mio.
Ora è tutta la squadra che lo incoraggia.
Lui ora se ne sta a testa alta. Non piange più.
Anzi, d’un tratto si alza in piedi li guarda e dice piano:

“OKAY, VADO”.

D’improvviso la stanza è la platea di un teatro, scoppia un applauso
rumoroso, fischi ed esclamazioni forti:

“BRAVO!!!”
“Così ti vogliamo!!!”
“Grande!!!”

La maggior parte di loro piange di gioia. Due dei fratelli si stanno abbracciando forte, il padre con loro. Per me è troppo. Esco dalla stanza. Mi sento ardere. Il mio respiro è più profondo. Penso di essere fortunato, che la vita ha valore anche per momenti come questo. Brucio come un bel fuoco.

Tiro un forte respiro e rientro nella stanza, non c’è tempo da perdere.
Organizzo il tutto velocemente.
Alcuni fanno la valigia, altri vestono il fratello. Ci stiamo dando tutti da fare con un po’ di paura che Gianbattista ci ripensi.

In un attimo mi ritrovo in macchina con lui.
Destinazione Pesaro, 500 KM circa.
In viaggio lui è un po’ più sereno. All’autogrill bevendo il suo ultimo bicchiere
mi confida:

“C’è un problema. Una cosa che ti devo dire prima di arrivare al centro…
Vedi… io.. sono omosessuale.”

Sorrido e gli rispondo.

“Per me è un problema nella misura in cui è un problema per te”.

Lui ride. E’ la prima volta oggi. Si sente capito e non giudicato per questo.

Durante il suo programma Gianbattista ha pianto spesso.
Era come se dovesse liberarsi di tutte le lacrime. Durante le prime fasi della riabilitazione questo può succedere. Una persona piange per tutte le cose per le quali non ha pianto quando si alterava.

Ma un giorno le lacrime finirono e venne fuori il vero Gianbattista.

Ogni tanto dal mio ufficio sentivo una risata nuova in mezzo al brusio degli ospiti.

Fu una gioia controllare e vedere che era lui. Ogni tanto si incazzava pure, con qualcuno. Poi metteva le cose a posto. Le emozioni erano tornate a fluire e lui era in grado di esprimerle liberamente, senza rimanerci bloccato a lungo.

Il giorno che finì il suo programma Gianbattista si vestì come usava fare prima che l’inferno iniziasse. Con la sua eleganza e con un tocco sobrio e discreto di femminilità.

Rispetto al primo giorno era un’altra persona.

Pantaloni e giacca nera, una bella camicia, barba fatta, perfettamente pettinato, occhiali, insomma ogni cosa al suo posto. Una sciarpa arancione brillante lo avvolgeva con malizia.

Lui sprizzava di gioia ed entusiasmo da tutti i pori mentre ci ringraziava e salutava i suoi compagni di viaggio. A me mi ha abbracciato forte, senza dire niente. Credo fosse un grazie, di quelli veri.

Da quel giorno non l’ ho più sentito.

Ma quando penso a lui lo immagino così.

Entusiasta, mentre dirige una sfilata di moda come un direttore d’orchestra.

“Sforzati di sorridere e presto smetterai di essere accigliato.
Sforzati di ridere e presto troverai qualcosa su cui ridere.
Cresci in entusiasmo e molto presto ti sentirai così.
Un essere causa le sue proprie sensazioni.
La gioia più grande che c’è nella vita è creare.
Attingine a piene mani.”

L. Ron Hubbard

Grazie a www.imagebase.davidniblack.com per le immagini.